Specchio della psiche e della civiltà

 

 

GIUSEPPE PERRELLA

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIX – 29 gennaio 2022.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]

 

 

(Venticinquesima Parte)

 

51. Il racconto riprende dallo svenimento di Masaniello con nuove e sorprendenti rivelazioni. Le tinte sature e intense, ma allo stesso tempo trasparenti e luminose dell’azzurro del cielo nel lungo pomeriggio estivo, rapiscono l’attenzione dell’inviato del Circolo di Oxford che, pensando divertito al paragone dei cieli inglesi con quello partenopeo sotto i suoi occhi come all’accostare un acquarello della sua zia Betty a una superba veduta di Claude Lorrain, decide fra sé e sé che proporrà, al suo ritorno in patria, una missione di studio dei più eccellenti membri del Circolo presso lo Studio di Napoli. Il professore napoletano intanto gli si accosta, prende temporaneo congedo da lui, e lo esorta ad avviarsi su, al loro alloggiamento dove lo raggiungerà in breve tempo. Nell’andare, l’Inglese vede innanzi a sé il priore che regge un messale e un’urna con la destra, mentre con la sinistra trae la veste per non inciampare nell’ascesa. Gli si avvicina, spontaneamente l’aiuta, e poi gli chiede:

“Padre, perché non vanno bene le cose a questo mondo?”

E il priore: “Hai visto le classi di fanciulli che vengono nei conventi a studiare il latino, i principi del far di conto, la geometria e la musica?”

“Certo – risponde lui – ci siamo passati tutti.”

“Ecco – riprende il priore – ci sono quelli che sono più bravi, pochi, e poi ce n’è tanti che sono svogliati, maldestri, più duri a comprendere; spesso sono anche buoni figlioli, ma non sono bravi, e sono la maggioranza. Questi figlioli, da grandi, questa maggioranza di uomini, tende a seguire i malandrini e non i giusti, senza capire, senza sapere, a volte anche senza volere. Tutto qui.”

“Non l’avevo mai vista in questi termini, la vita! Mi sembra illuminante, anche se forse troppo semplice: ci rifletterò e mediterò. Grazie, padre!” Con sincera sorpresa e gratitudine esclama l’Inglese.

“Vado a prepararmi per i Vespri.” Spiega il priore riprendendo la faticosa ascesa.

L’inviato del Circolo ritorna con la mente ai fatti del 1647 e pensa che si tratta di una trama degna delle migliori opere di William Shakespeare, ma non sa ancora se avrà un epilogo in commedia o in tragedia. Raggiunto l’alloggiamento, entra nella prima stanza, prende un volume che è sullo scrittoio, siede su un elegante sedile intagliato a sella curule e si accinge a sfogliare l’opera ma, appena alza gli occhi, vede inquadrata tra gli stipiti d’ingresso la figura alta ed elegante del suo interlocutore e allora ripone in fretta il libro, gli va incontro e, senza preamboli, sollecita:

“Sediamoci e riprendiamo dal malore che ha colto il capo della rivolta, per favore!”

“Lo svenimento – fa l’altro, entrando subito in argomento – deve aver suggerito a qualcuno della corte di Rodrigo Ponce de Leon duca d’Arcos un ulteriore elemento per la demolizione della solida e salda reputazione acquisita da Masaniello, sulla base di una nuova idea, dopo quella del tentativo di corruzione, probabilmente proveniente da Benevento. Cosa accade, nelle ore immediatamente seguenti alla sua nomina e alla sua ammissione alla corte vicereale? Il primo grande cambiamento lo possiamo desumere dal confronto con quanto scrive Filomarino al Papa il 12 luglio e quanto abbiamo visto con i nostri occhi.” Così detto, il docente dello Studio di Napoli prende a leggere la missiva:

Non vestiva altro abito che una camicia e calzoni di tela bianca ad uso di pescatore, scalzo e senza alcuna cosa in testa; né ha voluto mutar vestito se non nella gita dal Viceré.”[1]

“E invece?” Chiede l’inviato del Circolo di Oxford.

“E invece dopo poche ore era vestito con l’eleganza, la ricercatezza e la compiutezza di un nobile d’alto rango. Evidentemente, abiti già pronti ricevuti in dono. La moglie Bernardina Pisa è ricevuta a corte, dove giunge con una toeletta che evidenzia la naturale bellezza e freschezza della sua giovane età, e si presenta alla duchessa d’Arcos fregiandosi, con spirito allegro, del titolo buffo di «viceregina delle popolane»[2], riscuotendo tutta la simpatia dei presenti. Sentiva di essere entrata in un sogno.”

“Aveva abboccato! Avevano abboccato entrambi. Sono sicuro che si tratti di una trappola: uno che prova reiteratamente a consegnare documenti falsi… È vero o mi sbaglio?” Fa l’Inglese con un gesto di stizza per l’ingenuità della coppia, in quella circostanza. E il collega di Napoli:

“Lascia che prosegua. Tommaso Aniello porta con sé anche Grazia, la sorella, che ancor più di Bernardina appare trasognata, girando intorno lo sguardo come incantata, fra specchiere, opere d’arte, arredi regali, in uno scintillio mai visto prima di ori e cristalli, come la protagonista di una fiaba per bambini. Erano abituati ad essere disprezzati ed evitati dai nobili, trovarsi d’un tratto a capo di tutta la nobiltà cittadina, inclusi quelli che volevano apparire come semidei e non rivolgevano mai la parola e nemmeno lo sguardo alle persone del popolo, era come assistere ad un sovvertimento a proprio vantaggio dell’ordine costituito; qualcosa di precluso perfino in sogno!”

“Fanno credere loro di avercela fatta per ottenerne la fiducia, immagino…” Mormora l’Oxoniano.

“Naturalmente. In quei giorni Masaniello aveva parlato al popolo salendo sulla fontana della Piazza del Mercato, ma ora che può parlare in nome del re di Spagna ha bisogno di un pulpito degno della carica di Capitano, così Ponce de Leon manda una squadra di carpentieri col compito di erigere in poche ore un grande palco davanti casa sua, al Vico Rotto.”

“Tutta scena, per rafforzare l’impressione di realtà!” Esclama l’Oxfordiano.

“Non vuoi proprio credere che il viceré possa…” Sta per chiedere il Napoletano, ma viene interrotto:

“Aspetto solo che mi spieghi il piano, cioè come è cambiato il piano dei trecento infiltrati!”

“Hai ragione. Vengo subito al punto. Non so se Mustaccio ha continuato a presiedere le trame dietro le quinte beneventane, o qualcuno della corte spagnola ha preso il suo posto, fatto sta che, avendo sospeso le gabelle e, soprattutto, avendo giurato solennemente nel Duomo di Napoli sui capitoli del privilegio con tutto il popolo per testimone, Rodrigo Ponce de Leon duca d’Arcos non si sente più minacciato, è di nuovo legittimato ad agire vicariando il re di Spagna, rispettato dagli insorti, e ritiene di aver riconquistato la fiducia di tutti. Non resta che liberarsi del pescatore nominato Capitano del Popolo, per ottenere una piena restaurazione di regime. Il piano prevede che si presenterà alla gente un Masaniello improvvisamente impazzito, indicando come prodromo il suo svenimento e facendo circolare la voce, tra quelli che non erano presenti la domenica 7 luglio, che il pescatore aveva già dato i primi segni di squilibrio, proprio quando fingeva di essere matto secondo il piano di don Giulio Genoino.”

“Come fanno a farlo credere pazzo?” Domanda l’Inglese.

“È questa la novità del piano. Qualcuno di cui non conosco l’identità ha detto al viceré di sapere come fare.” Spiega l’altro.

“Come?” Chiede ancora l’interlocutore.

“Ti dico cosa è avvenuto. Ponce de Leon e consorte danno un grande banchetto a corte in onore di Masaniello e Bernardina. Al termine del banchetto, il Capitano del Popolo comincia a dare segni di follia. O, per meglio dire, i testimoni raccontano ‘cose da matti’: le cose che pare abbia fatto sono le stesse in tutti i racconti, però la loro collocazione nel tempo e nello spazio è diversa da racconto a racconto.”

“Cosa ha fatto?”

“Ha lanciato un coltello tra la folla, ha cominciato a riferire di un suo progetto di trasformare la Piazza del Mercato in un porto e costruire un ponte per collegare direttamente Napoli alla Spagna, poi è andato via a cavallo al galoppo, e infine si è tuffato in mare di notte.”

“Non poteva essere ubriaco?”

“Al banchetto gli hanno dato una droga che fa impazzire. Almeno, così hanno detto i suoi congiunti, che non lo avevano mai visto così.”

“Ed esiste una siffatta sostanza?”

“Pare sia un estratto di una pianta ottenuto in India.”[3]

“Capisco.”

“Comunque sia, gli infiltrati di Diomede Carafa si producono in un’attività di diffamazione capillare ed esasperata, riuscendo a indurre tutti a guardare Masaniello attraverso la lente deformante del saperlo ammalato nella psiche, nell’anima…”

“Thomas Willis, del nostro Circolo di Oxford, ha scoperto che le malattie psichiche sono mali del cervello, non dell’anima!”

“Lo avevo sempre supposto. Ma, ascolta, gli Spagnoli hanno un’idea dei sofferenti di mente molto primitiva e superstiziosa: li considerano a metà tra esseri demoniaci e creature corrotte dal peccato e in grado di trasmetterlo per contagio.”

“Incredibile! Non lo avrei mai immaginato.”

“Pensa, in Spagna, nel secolo scorso, i frati di vari ordini religiosi hanno dovuto creare degli ospizi per le persone deboli nella psiche, per proteggerli dalla pubblica lapidazione. Per strane e barbare credenze, tanti Spagnoli, non solo del popolo, quando vedevano un uomo in preda a eccitazione, o anche un paralitico, un sordomuto, un malformato o un demente con comportamenti inconsueti, lo bersagliavano con dei lanci di pietre o si avventavano contro di lui, finendolo a colpi di spada, come se non fosse una creatura umana…”

“Atroce!”

“Un po’ di questo modo di pensare è rimasto nei nobili spagnoli che sono qui a Napoli. Inconsapevolmente, e spesso indirettamente, la gente è influenzata dalle concezioni dei propri governanti. Una persona che vada incontro a insania della mente qui è da molti considerata alla stregua di un lebbroso o di un indemoniato.”

 

52. Breve discussione in chiave neuroscientifica della presunta follia di Masaniello. Credo che sia opportuno intervenire su questa ricostruzione dialogata per qualche considerazione alla luce delle conoscenze attuali sulla presunta malattia mentale di Masaniello, che riflette, con ogni evidenza, più le forme mitiche della rappresentazione della follia nell’immaginario collettivo dell’epoca, che la coerenza sintomatologica di un quadro clinico, denunciando l’assoluta mancanza di plausibilità della narrazione sviluppata in seno alla storiografia ottocentesca da autori propensi a svolgere creativamente la traccia dettata due secoli prima dalla corte vicereale.

Prima di discutere di quei comportamenti che sono stati considerati segno inequivocabile di disturbo mentale grave da vari storici ottocenteschi e addirittura spiegati da alcuni autori nostri contemporanei quale conseguenza di un eccesso di responsabilità – come se questa fosse una causa acclarata di disturbo mentale – desidero fare una considerazione generale a proposito di una differenza profonda di sensibilità e concezione esistente tra il Seicento e i nostri giorni.

In quegli anni lontani la dimensione della follia era da molti ritenuta una condizione dello spirito che comportava perdita di dignità, rispettabilità, valore, al punto da sminuire la stessa identità umana[4]; per altri la persona folle, come se fosse responsabile di atti degradanti o spregevoli, era moralmente ignobile, abietta, degna solo di disprezzo. In tutti i casi, la sua rappresentazione era associata a vergogna e pubblica deprecazione. Spesso, chi diventava folle non aveva più nessuno che si identificasse con lui o gli manifestasse solidarietà umana.

Oggi innanzitutto distinguiamo i disturbi mentali – il cui accertamento comporta una diagnosi psichiatrica – da comportamenti estremi o inusitati e per questo etichettati come “folli” e, sebbene nel linguaggio di gergo comune si chiama “pazzo” qualcuno che faccia cose incomprensibili o ingiustificate, abbiamo ben presente la distinzione tra realtà di malattia e comportamenti indesiderati o inammissibili di persone sane. Fatta questa distinzione, oggi chi soffre di un disturbo gode di tutta la comprensione umana di cui ciascuno di noi è capace.

Anche a riguardo del tacciare di matto Masaniello come aggravante di un comportamento di “tradimento del popolo”, per favorirne la condanna, possiamo rilevare una differenza col modo di pensare dei nostri giorni. Delle due l’una: o ci troviamo di fronte a una persona che ha avuto un esordio psicotico, rivelando la sua malattia mentale, e dunque è da comprendere e soccorrere, e non è imputabile se commette reati, perché non è responsabile di sé; oppure ci troviamo di fronte a una persona sana di mente, e dunque imputabile perché perfettamente in grado di intendere e volere, che fa “cose da matti” per una qualche precisa ragione, da accertare e conoscere per capire, interpretare e farsi un’opinione.

Ma veniamo al commento della presunta follia del Capitano del Popolo descritta nel dialogo del paragrafo precedente.

È evidente la differenza fra questa puerile rappresentazione del disturbo mentale e la realtà: gli ideatori del piano di delegittimazione di Masaniello si comportano come se la malattia mentale si identificasse col fare cose strambe, in una sorta di rapporto biunivoco, mentre nella realtà il disturbo mentale consiste in un’alterazione che può esprimersi o meno in un comportamento irrazionale. In altri termini, un matto può fare stramberie, ma non tutti quelli che fanno tali cose sono matti. Una persona che manifesti per un disturbo mentale – e non per effetto di intossicazione etilica acuta o per assunzione di sostanze psicotrope – delle franche congetture deliranti, come quella di costruire un ponte che unisca Napoli alla Spagna, presenta in genere una condizione disfunzionale complessiva che si riflette su molti aspetti della vita psichica, con conseguenze che vanno dalla perdita dell’efficienza cognitiva alla difficoltà di gestirsi nei compiti della vita quotidiana, dalla ridotta capacità di agire coerentemente in vista di uno scopo alla difficoltà di comprendere con immediatezza i contenuti astratti di una comunicazione.

Un delirio illogico di questo genere non compare in una persona che ha un grado così elevato di efficienza psichica da poter guidare un popolo in una insurrezione, esprimendo le qualità riportate nel già citato brano della lettera scritta dall’Arcivescovo Ascanio Filomarino nel giorno stesso in cui sarebbe improvvisamente impazzito, diventando delirante, e che vale la pena rileggere: Questo Masaniello è pervenuto a segno di tale autorità, di comando, di rispetto e di obbedienza, in questi pochi giorni, che ha fatto tremare tutta la città con li suoi ordini, li quali sono stati eseguiti da’ suoi seguaci con ogni puntualità e rigore: ha dimostrato prudenza, giudizio e moderazione; insomma era diventato un re in questa città, e il più glorioso e trionfante che abbia avuto il mondo. Chi non l’ha veduto, non può figurarselo nell’idea; e chi l’ha veduto non può essere sufficiente a rappresentarlo perfettamente ad altri[5].

Uno psicotico delirante non è in grado di esprimere prudenza, giudizio e moderazione, non ha coscienza, elasticità e sensibilità così fini da cambiare appropriatamente registro da quello stentoreo del comandante che impartisce ordini al popolo a quello rispettoso e sottomesso all’autorità religiosa, e soprattutto non è in grado di gestire coscientemente con volontà determinata le proprie facoltà psichiche al fine di risultare quell’efficiente cooperatore di cui parla Filomarino, per realizzare l’impresa di definire in così poco tempo il documento politico da sottoporre al viceré: “La confidenza e l’osservanza e il rispetto ch’egli ha avuto in me, e l’ubbidienza che ha mostrato in ordinare e fare eseguire tutte le cose che gli venivano dette e suggerite da me, è stato il vero miracolo di Dio in questo arduo negozio: il quale era altrimenti impossibile di condurre a fine in così poche ore…”[6].

Esiste una forma di psicosi in cui l’efficienza cognitiva e la lucidità sono conservate, definita dalla nosografia classica paranoia e anticamente detta follia ragionante, proprio per la conservazione di uno sviluppo logico del pensiero, ma, a parte la presenza di idee di riferimento e deliri di persecuzione, la differenza lampante è che in questo disturbo non si hanno i deliri irrealistici attribuiti a Masaniello, come il porre un porto nel bel mezzo di una piazza o costruire un ponte che dal Tirreno attraversi tutto il Mediterraneo fino alla penisola iberica. E, in ogni caso, gli affetti da questo disturbo, che non sono quasi mai giovani, lo sviluppano progressivamente nel corso di molti anni, rimanendo a lungo solo sospettosi, vendicativi, rigidi, permalosi e presuntuosi.

Anche a chi non abbia alcuna nozione di psichiatria, oggi appare improponibile e assurdo indicare lo svenimento di Masaniello, ossia la sua lipotimia da stress, come un segno di follia. È comune esperienza che chiunque possa andare incontro a un cedimento fisico per sovraccarico emotivo congiunto con altri fattori. Anche questa menzogna rivela aspetti della concezione dei disturbi psichici di quel tempo: la caduta con perdita di coscienza è associata impropriamente all’epilessia e, poiché all’epoca includevano nell’insieme indistinto della “follia” i disturbi epilettici – che sono malattie neurologiche e non psichiatriche –, i diffamatori di Masaniello potevano indicare lo svenimento quale prodromo o segno dell’insania mentale del Capitano del Popolo.

La follia, intesa quale disturbo mentale grave e irreversibile, contrariamente a quanto trasmesso per secoli da un’antica e radicata credenza popolare, non compare mai come un fulmine a ciel sereno. Un’anamnesi accurata rivela sempre una fase di progressivo peggioramento, che tutt’al più in alcuni casi presenta delle rapide accelerazioni, e la presenza da lungo tempo, talvolta dall’infanzia o dall’adolescenza, di tratti che progressivamente acquisiscono i connotati dei sintomi veri e propri. Quando in clinica psichiatrica ci si trova di fronte a un caso, soprattutto se di età giovanile, in cui sembra che l’esordio di deliri, allucinazioni e cambiamento della personalità sia stato assolutamente improvviso, si sospetta sempre l’assunzione di psicosomimetici, inclusi gli psicodislettici (allucinogeni), o di altre molecole psicotrope in dose tale da rompere gli equilibri fra le grandi reti neuroniche finemente regolate dall’azione dei 52 neurotrasmettitori, dalle numerose classi e sottoclassi dei loro recettori e dagli innumerevoli processi cellulari, molecolari e di sistema alla base della neurofisiologia del nostro encefalo.

Per queste ragioni ritengo plausibile il racconto della somministrazione di una droga a sua insaputa al banchetto del viceré, anche se l’ipotesi che si sia trattato di reserpina mi sembra poco probabile, e qui di seguito ne espongo in sintesi il motivo.

La reserpina è un alcaloide della rauwolfia serpentina che alle dosi medie efficaci produce prevalentemente una riduzione di attività nervosa, sia al livello del sistema nervoso centrale, e principalmente dell’encefalo, sia al livello del sistema nervoso autonomo, e per questa ragione la sua azione è stata in passato impiegata a scopo terapeutico per ridurre l’eccitazione psicotica e determinare riduzione della pressione arteriosa. In termini farmacologici, la reserpina presenta 1) attività simpaticolitica periferica (è un anti-adrenalino-depositore e un inibitore della ricaptazione granulare); 2) attività simpaticolitica centrale (deprime i centri ergotropici mesodiencefalici e vasopressori bulbari); 3) attività reflessogena ipotensivante; 4) attività adrenolitica alfa-bloccante, a dosi molto elevate.

Oggi la reserpina è considerata un vecchio farmaco non più prescritto per la cura dell’ipertensione e citato solo nelle notizie storiche per l’indicazione come neurolettico. Per la proprietà deprimente del sistema nervoso centrale, l’identificazione con la molecola che fu somministrata a Masaniello è dunque poco probabile. Si consideri anche che gli effetti collaterali di eccitazione del sistema nervoso centrale con disturbi del sonno e sogni allucinatori, sono incostanti e non si verificano alle prime somministrazioni. Più probabile, invece, che la molecola in questione fosse uno psicosomimetico, ossia un composto in grado con una singola dose di determinare un’eccitazione deregolata dei sistemi dopaminergici – con conseguenze a catena sugli altri sistemi neurotrasmettitoriali – e tale da indurre una reazione delirante acuta. In proposito si consideri che gli Spagnoli disponevano di molte sostanze psicotrope ad effetto psicostimolante e allucinogeno, provenienti dalle colonie dell’America Centrale e Meridionale, e in grado, in dose elevata, di sconvolgere per tossicità acuta l’attività mentale.

Infine, si può osservare che numerose fonti storiche, riportate fra gli altri da Campolieti e Gurgo, descrivono Masaniello nel giorno in cui fu assassinato a tradimento come se fosse una persona nella tarda vecchiaia, agonizzante dopo lunghi anni di sofferenza per una grave patologia cronica, con frasi come: “Il capopopolo, il cui fisico era ormai debilitato dalla malattia…”[7]. Bisogna chiedersi perché, se si sta invece parlando di un ventisettenne nel pieno vigore della giovinezza, che proprio in quei giorni, tra atti di governo e atti di presunta follia, come la cavalcata al galoppo e il bagno in mare di notte, ha dato prova di essere in salute e buona forma fisica. La sola possibilità che mi viene in mente è che qualche testimone possa aver visto, senza riconoscerli nella loro natura sintomatologica, i segni di uno stato tossico dovuto all’assunzione di una sostanza psicotropa, e che, nel traslato degli storici, questi segni di alterazione siano stati trasformati in “malattia debilitante”.

 

53. Il racconto prosegue con fatti veri oggi confermati da documenti dell’Archivio General de Simancas. L’Inglese riflette: “La calunnia e la diffamazione sono tanto basse, indegne e abiette quanto difficili da combattere, soprattutto se diffuse contemporaneamente da centinaia di persone. Se una persona sparla di un’altra in privato, chi ascolta la maldicenza tende a cercare una prova prima di ritenerla vera; se invece le malignità sono pronunciate in pubblico da più voci, la molteplicità delle fonti è ritenuta essa stessa una prova, dalla maggior parte delle persone.”

“È proprio vero.” Conferma il Napoletano.

“Prego, continua!” Lo invita l’interlocutore d’oltremanica.

“In quattro giorni l’ammirato Capitano del Popolo, il liberatore, il paladino della causa della libertà della vera patria partenopea, dove i figli del sole e del mare erano stati sempre padroni e mai schiavi, doveva diventare il peggiore degli uomini, esecrabile e detestabile, non solo per isolarlo dal popolo e poterlo sopprimere senza destare indignazione, ma per indurre il popolo stesso a rivoltarsi contro di lui. Doveva essere il popolo, l’oggettiva vox populi a demolire l’immagine del giovane capo, diffonderne la rappresentazione calunniosa e, infine, concentrare su di lui tutto il male immaginabile per convogliare l’odio, le spinte distruttive, la rabbia e il desiderio di vendetta ancora presenti nell’animo di molti, sull’unico capro espiatorio. Intanto, la corte vicereale è riuscita a mostrare un Masaniello pazzo, ma sa che questo non basta, e che non basta nemmeno sottolineare che nel secondo giorno del suo governo, il 13 luglio quando Ponce de Leon ha solennemente giurato nel Duomo di Napoli fedeltà al patto col popolo, il “folle” ha disposto delle esecuzioni capitali…”

“Come mai? Chi fa uccidere?” chiede preoccupato l’Oxoniano.

“Per certo un bandito di quelli infiltrati, per il quale don Giulio Genoino chiede clemenza[8]. Masaniello ha scoperto che fra loro vi sono dei fuorilegge che agiscono per conto dei Carafa, direttamente collegati al sovrano spagnolo, ma non sappiamo e non sapremo mai quanto era venuto a sua conoscenza, se aveva appurato l’identità del solo bandito che ha condannato o è risalito a un maggior numero di spie o se, addirittura, abbia scoperto tutta la trama dei trecento del duca di Maddaloni. Per sicuro si può dire che chi lo circonda, se lo ritiene matto, non gli crede e non si spiega perché faccia giustiziare uno del popolo, per giunta uno per il quale il suo amico e padre spirituale Giulio Genoino chiede clemenza.” Chiarisce il Partenopeo.

“Ora capisco. Ma la moglie, la sorella, i suoi fedelissimi non potevano spiegare…”

“Può darsi che l’abbiano fatto o che abbiano almeno tentato di farlo. Purtroppo non so nulla di queste cose. Si è trattato di ore, più che di giorni, rimaste impresse solo nella mente dei pochi testimoni. Ma – ti stavo dicendo – la corte vicereale sa che non basta farlo credere matto per renderlo inviso e disprezzato da tutti, allora concepisce altre due nuove calunnie fra loro collegate; calunnie, queste si, che Bernardina può smentire e confutare, ma intanto avviene che gli infiltrati avviano già una ribellione contro il Capitano del Popolo, obbligandolo a rifugiarsi in casa sua con Bernardina. È ragionevole supporre che le spie abbiano creato intorno a sé consenso e condivisione, almeno in un migliaio di persone, trasformando così il popolo in uno strumento nelle mani della corte vicereale.” Argomenta il professore.

“Quali erano queste due calunnie?” Domanda lo studioso di Albione.

“La prima era che Masaniello fosse omosessuale, cosa che gli spagnoli cercavano di fondare sulla credenza popolare che tutti gli uomini di belle sembianze lo siano, e la seconda che fosse pederasta, intrattenendo una relazione con Marco Vitale, un sedicenne apprendista pescatore, che andava a pesca sulle barche della famiglia d’Amalfi ed era rimasto come aiutante di campo, accanto a colui che gli aveva insegnato il mestiere. Si trova traccia in documenti spagnoli di queste dicerie calunniose che le spie avevano fatto circolare ad arte: Masaniello bufon, loco y sodomita e Marco Vitale moço de 16 años sodomita publico[9]. Se la menzogna della follia è diretta a influenzare tutti, queste due accuse, in particolare quella di un reato infamante secondo il tradizionale ordinamento giuridico del Regno di Napoli, è maggiormente diretta a suggestionare quelli che non hanno conosciuto Tommaso Aniello d’Amalfi prima della rivolta.”

“Vermi schifosi!” Non riesce a trattenere l’inviato di Oxford.

“Intanto, gli Spagnoli avevano avuto ordine di corrompere i capi che non si erano fatti persuadere dalle spie a volgersi contro il Capitano del Popolo. Ho notizia certa della corruzione di cinque capitani di ottine: Carlo Catania, Salvatore Catania, Andrea Rama, Andrea Cocozza e l’amico di Masaniello, Michelangelo Ardizzone.”

“Che cosa triste, il tradimento di un amico per danaro!”

“A Giuda ne bastarono 33 di denari per tradire il Figlio di Dio…”

“Quanti ne ha avuti Ardizzone?”

“Non lo so. E neanche di Rama. So degli altri: Carlo Catania ottenne cinquecento scudi e la Capitania a Guerra della città di Napoli, ossia il ruolo di autorità civile che sovrintende la gestione della difesa militare e il comando dell’esercito in caso di guerra[10]; Salvatore Catania ottenne la carica di Percettore di Terra di Lavoro, cioè esattore di tutte le tasse; Andrea Cocozza ebbe un vitalizio di trecento scudi per suo figlio, e per sé la Capitania a Guerra di Nicastro, in Calabria. L’anno dopo, il 17 giugno del 1648 furono tutti creati nobili col privilegio di nobiltà e l’incarico di governo per sei anni, rispettivamente di Modugno in Puglia, Cava de’ Tirreni e Catanzaro in Calabria, con venticinque scudi mensili di pensione a incarico compiuto[11].” Dettaglia il professore.

“Molto onerosa questa corruzione per il viceré. Tuttavia redditizia, perché ha trasformato i potenziali capi di nuove schiere di rivoltosi nei più strenui difensori del sistema di governo spagnolo, del quale sono diventati parte integrante.” Osserva l’Anglosassone, e poi: “Con questa mossa, il nostro pescatore e sua moglie Bernardina Pisa sono accerchiati!”

“Esattamente e, dopo solo tre giorni, ovvero il 16 di luglio, i nemici di Masaniello si accalcano sotto le finestre della sua dimora al Vico Rotto al Carmine.”

“Lui non sa niente della congiura?”

“No, ed è per questo affranto e incredulo. Sa che si dice che è impazzito perché il potere gli ha dato alla testa. Udendo le urla, si affaccia alla finestra, e si sente accusare di pazzia, quale grave colpa per un governante, e di tradimento del popolo. Come se non fosse stato lui a guidare la rivolta e a compiere tutti quegli atti che hanno costretto il viceré a togliere le gabelle: è sbalordito, e alle urla del popolo risponde tacciandoli di ingratitudine e poi pronuncia una frase che in tanti hanno udito ed è rimasta scolpita anche nella mia mente: «Tu ti ricordi, popolo mio, come eri ridotto?»[12] E in lui lo sbigottimento e il dolore prevalgono sulla rabbia e la paura: solo nove giorni prima quel popolo affamato e disperato lo aveva seguito come gli Ebrei seguirono Mosè, e fino a tre giorni prima lo avevano osannato come il più grande Capitano del Popolo che Napoli avesse mai avuto.”

“Chi lo difende? Chi sta dalla sua parte? Solo Genoino e Filomarino?”

“Questo è il problema. Sono infatti riusciti a convincere anche loro che Masaniello è impazzito…”

“Anche l’Arcivescovo Ascanio Filomarino?”

“Si, il tuo eroe!”

“Come è stato possibile?!”

“Ho con me anche una copia dell’ultima lettera che Filomarino scrive al Papa, in cui lo considera – da un giorno all’altro – un elemento perturbatore… Ecco qui la lettera. Dice che si reca con il duca d’Arcos a rendere grazie a Dio Benedetto, alla Beatissima Vergine e al glorioso San Gennaro per aver estinto il perturbatore, e restituita la perduta quiete.[13]

“E tu hai parlato con lui, gli hai chiesto cosa realmente pensasse e perché lo pensasse?”

“Non ho potuto. Non sapevo nemmeno cosa avesse scritto nell’ultima lettera al Papa, in quei giorni. E dopo non ho mai rievocato con lui l’epilogo della vicenda. Forse, quando andremo a fargli visita insieme, potremo provare a interrogarlo, con la scusa di una tua curiosità storica.”

“Ma perché vogliono ucciderlo, anzi farlo uccidere, a tutti i costi? Forse perché lui non si accontenta, come tutti gli altri, di aver fatto togliere le gabelle e vuol partecipare davvero al governo della città?”

“O forse perché ha scoperto qualcosa… Intendo qualcosa del complotto, degli infiltrati e, prima che possa dirlo a quella parte del popolo ingannata in buona fede, vogliono zittirlo per sempre.”

“Bene. Concludi la narrazione dei fatti al più presto, perché ora che sono certo di un epilogo negativo ne sto soffrendo, come se stesse accadendo adesso.” Sollecita l’inviato.

“Certo. Masaniello ha capito che lo hanno condannato a morte e prova a sfuggire rifugiandosi nella ‘sua’ chiesa del Carmine, dove è in corso la celebrazione della santa messa solenne in onore della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo, la cui tradizione a Napoli risale al XIII secolo, e proprio in quel giorno, il 16 di luglio, tutti i devoti accorrono in quel tempio per le funzioni. Dicono che Masaniello abbia interrotto la celebrazione e abbia chiesto al Cardinale Arcivescovo Ascanio Filomarino, come ultimo desiderio, di partecipare alla tradizionale cavalcata in onore della Vergine Maria[14].”

“Sembra strano, questo.” Nota l’Inglese.

“Probabilmente, uscito di casa per andare alla celebrazione che ogni anno vedeva il suo quartiere diventare il centro spirituale della città, si è accorto di essere seguito. O addirittura inseguito, come dicono alcuni, e si è rifugiato in chiesa.”

“Ecco, mi sembra plausibile. Questo spiegherebbe anche perché abbia interrotto la celebrazione.” Concorda l’inviato.

“Infatti. Forse aveva sperato che la gente accorsa a inveire sotto la sua finestra fosse ancora una minoranza e che, potendo parlare al popolo come era d’uso per le autorità civili al termine della messa in quella ricorrenza, avrebbe potuto ristabilire la verità.” Ipotizza il Napoletano.

“Ma certo, deve essere stato così!” Conclude l’Oxoniano.

Dopo un momento di riflessione in cui rimane assorto a guardare in alto, come per rammentare esattamente i fatti a lui riferiti, il professore riprende:

“In ogni caso, Masaniello è ancora in chiesa, dove è convinto che non lo possano uccidere, sale sul pulpito e si rivolge ai fedeli presenti per protestare la sua innocenza dall’accusa di traditore del popolo e, per dar forza al suo discorso, si toglie gli abiti da signore che indossava solo da tre giorni. Vuol dire: sono sempre uno di voi e svesto i panni della carica che ho ricevuto. Ma anche questo fatto viene distorto, strumentalizzato e riferito come di ‘un pazzo che si è spogliato in chiesa’, perché nella visione popolare i folli fanno di queste cose.”

“Deve averlo vissuto come un incubo!” Si immedesima l’Inglese.

“Lo credo anch’io. Rinnegandolo, lo privano di identità.” Concorda il Napoletano.

“Cosa fa, a questo punto?” Domanda l’Oxoniano.

“Masaniello chiede di essere ospitato nel convento, e sembra che non sia stato Genoino il suo interlocutore, ma Filomarino stesso – ovviamente presente per celebrare nella speciale occasione della festa della Madonna del Carmine – e, dunque, sia stato l’alto prelato a concedergli una cella, dove il pescatore si rinchiude deciso a rimanervi ad oltranza. Ma presto sono informati i cinque capitani di ottine traditori, ossia Carlo Catania, Salvatore Catania, Andrea Rama, Andrea Cocozza e Michelangelo Ardizzone. I cinque battono alla porta della cella, ma il Capitano del Popolo non apre. Allora gli si rivolge in tono confidenziale il suo amico Ardizzone e lo rassicura, dicendogli che vogliono solo parlargli e non correrà alcun pericolo: peggio del bacio di Giuda. Masaniello allora apre la porta della cella e riceve immediatamente i colpi di archibugio dei cinque assassini che, appena lo vedono stramazzare al suolo, si avventano su di lui e lo decapitano. Proprio Ardizzone terrà il capo e, mentre gli altri trascinano il corpo per le strade del Lavinaio facendo scempio del cadavere, che poi abbandonano tra Porta del Carmine e Porta Nolana tra i rifiuti[15], l’amico porta la testa di Tommaso Aniello d’Amalfi al viceré Rodrigo Ponce de Leon duca d’Arcos, come questi aveva chiesto.”

“Una barbarie raccapricciante, peggiore dei tanti scempi commessi in Inghilterra. Ma questo Ardizzone, chi è? Non mi sembra tu l’abbia nominato prima.” Commenta e interroga l’inviato.

“Nei due giorni precedenti, Masaniello aveva stabilito – e il viceré accettato – che si aumentasse il peso dei pani, lasciando invariato il costo. Devi sapere che a Napoli le forme di pane prendono il nome dalla pala con la quale si infornano, che ha tre misure fisse: piccola, media e grande. Un pane impastato crudo delle dimensioni della pala media si chiama palata di pane, il pane che va sulla pala piccola è la palatella, il pane che richiede la pala grande è il palatone. Masaniello aveva stabilito che una palata doveva corrispondere a un pane di almeno 32 once: lo zelante esecutore di questa disposizione era stato l’Ardizzone, che l’aveva fatta rispettare da tutti i fornai della città, guadagnandosi la nomina di capo dell’ottina dello Spirito Santo da parte del Capitano del Popolo.”

“È ancora più disgustoso e imperdonabile questo tradimento con l’omicidio e il seguito… Ma non è che l’Ardizzone faceva parte dei trecento infiltrati?”

“Non lo so. So che si conoscevano già; può darsi che fosse già stato corrotto prima del 13, ossia prima che fosse messa in scena la follia di Masaniello. Ma sono solo supposizioni. Si dice che i congiurati, braccati da fedelissimi del pescatore, si siano inizialmente rifugiati presso il viceré in Castel Nuovo, ma poi Ponce de Leon, temendo che si scoprisse che la trama faceva capo a lui e non era stato ‘il popolo stesso ad aver distrutto il suo idolo’, come era stato detto ad ogni canto di strada, li aveva fatti allontanare dal castello. I congiurati fuggono a Gaeta con una galera, ma qui con ogni probabilità si separano, perché poi Ardizzone è stato visto da solo a Terracina…”

Il racconto viene bruscamente interrotto da un frate che annuncia un messo inviato da Castel Nuovo, che sta girando tutta la fortificazione di Sant’Elmo per comunicazioni urgenti. Il messo entra e, senza preamboli, chiede se in quegli appartamenti vi siano barbieri in grado di praticare salassi a sostegno dei chirurghi, o se vi siano volontari disposti ad aiutare medici e infermieri, spiegando che è stata costituita una Deputazione della Salute che ha reclutato dalle 29 ottine tutti i dottori delle scienze mediche e tutti gli addetti agli infermi ancora sani presenti in città, per fare argine all’epidemia e dare i pasti agli ammalati che possono guarire. Aggiunge, poi, che stanno anche raccogliendo lenzuola, materassi e guanciali, perché quelli dei deceduti di peste vengono immediatamente bruciati. Per esortare alla partecipazione, dice che il cardinale arcivescovo, il nunzio apostolico e tutto il clero si sono mobilitati e, già dal mese precedente, sono notte e giorno nei lazzaretti e nelle aree di accoglienza aperte: si fermano solo per celebrare messe funebri collettive.

Il nostro professore, visibilmente in pena per quanto accade, chiede se qualcuno stia tenendo il conto dei decessi che avvengono ogni giorno, e il messo spiega che le parrocchie registrano scrupolosamente ogni trapassato e i sagrestani ne danno pronta comunicazione alla curia arcivescovile, ma che da ora in poi tutti i dati saranno centralizzati presso la Deputazione della Salute, dove gli ufficiali di censimento terranno il conto e l’elenco per tutta la città. Togliendosi il cappello, il messo pronuncia con voce grave le cifre: 400 morti al giorno di media nel mese appena trascorso e fino a quasi 1500 negli ultimi giorni.

Anche a nome dell’ospite, il professore dichiara, scusandosi, che non potranno andare in aiuto ai medici e che si limiteranno a pregare a distanza. Allora, il messo dice loro che anche il clero non sa più a qual santo votarsi e che il popolo ora sta pregando incessantemente quello che è stato chiamato Padre della Provvidenza: un frate eroico nella carità verso i sofferenti, il beato Gaetano da Thiene, fondatore dell’Ordine teatino e venerato in un’ottina a lui dedicata con tanto fervore dagli abitanti[16].

Prima di andare via il messo, per incoraggiare loro e gli altri che lo hanno seguito e sono lì con alcuni frati, dice che ha giù nella carrozza tutto il necessario a proteggersi dalla peste per almeno dieci persone. Poi saluta con l’inchino di riverenza, rimette il cappello e si allontana.

Poco dopo, il professore e l’inviato vanno ad affacciarsi per seguire dall’alto la ripartenza del messaggero e vedono una pesante diligenza trainata da quattro cavalli, che sosta con uno sportello aperto, presso il quale si vede un uomo completamente coperto da un tessuto cosparso di cera, con una maschera provvista di un grosso e lungo becco adunco, come quello di un gigantesco uccello, sormontata da occhiali e sorretta da una fascia che passa sotto il mento e si lega sul capo in un nodo nascosto da un cappello, sotto il quale è anche inserito, a mo’ di cappuccio, il prolungamento nucale del mantello cerato che avvolge tutto il corpo, ed è lungo fino ai piedi, protetti dalle calzature. L’uomo ha tra le mani una sottile e lunga asta metallica con l’estremità modellata a formare due alette digitate per la presa[17].

“È un medico – spiega il Napoletano – e quel becco, che racchiude sostanze aromatiche, contiene l’aria da respirare mentre si avvicina a un appestato per visitarlo. Si ritiene che il contagio possa arrivare non solo dal contatto con i bubboni, ma anche dall’aria che è intorno agli ammalati, perché c’è gente che si è contagiata senza aver mai toccato i malati o che portava i guanti, che ha gettato ad ardere nel fuoco subito dopo. Gli antichi credevano che la peste venisse dall’aria, noi sappiamo che la trasmettono gli ammalati e i contagiati, ma non sappiamo molto più di loro.”[18]

“Un giorno si scoprirà anche questo. Il metodo di Galileo applicato alla medicina, la nuova scienza di Boyle, la fisiologia di Harvey e del suo allievo Thomas Willis serviranno pure a qualcosa!” Esclama l’Inglese, quasi a volersi convincere, per trovare rassicurazione nel potere della scienza.

“Oppure si dovrà fondare una scienza particolare per studiare i morbi contagiosi. In ogni caso, la scienza ci dà sempre un sapere che richiede di essere ulteriormente analizzato e concettualizzato per trovare le cure, e tutto questo richiede molto tempo. Di fronte a un’epidemia è necessario un intervento immediato. Se pure oggi si scoprisse cosa la genera, quanto tempo sarebbe necessario per trovare un mezzo di cura?” Nota il professore dello Studio di Napoli.

“Non resta che la preghiera, per un intervento dall’alto. Per un atto di misericordia. È vero, infatti, che l’epidemia non è una punizione divina e, come ha spiegato Gesù per la disgrazia del crollo della Torre di Siloe, fa parte degli eventi che si producono per cause seconde; tuttavia, si può sempre impetrare l’aiuto divino per la sofferenza e la morte che producono a creature battezzate e già redente dal sangue preziosissimo del Signore Nostro Gesù Cristo.” Conclude l’inviato inglese.

“Hai ragione.” Concorda il professore.

Il certosino che li aveva chiamati per la mensa si avvicina portando loro una tisana rinfrescante, preparata con acqua tenuta fresca in botti poste nell’umido buio di vani prossimi alle segrete del castello. Scusandosi con l’Inglese per la mancanza di tè[19], porge un vassoio con biscotti preparati dai confratelli e due brocchette dell’infuso. Prima che possano ringraziarlo, si è già allontanato.

“Nel tuo racconto – fa l’Oxoniano mentre beve la tisana per dissetarsi senza nemmeno toccare i biscotti – è morto Masaniello. E un messaggero è venuto a ricordarci che là fuori c’è la peste, un altro nome della morte, ovvero una padrona che ha decimato un popolo e lo sta sterminando, secondo la sua essenza di male distruttore contrapposta a quella del sommo bene, il Dio creatore. Quel Padre che tutto ha creato per la vita. E in questo istante, nel tempo e nelle parole, siamo nel regno di thanatos: la distruzione del corpo e la fine di tutto, per chi non ha in sé lo spirito d’amore che è ragione di fede e seme di resurrezione. Siamo nel territorio di mezzo fra l’essere e il non-essere, o forse nell’anticamera, ma non lo sappiamo. Sappiamo solo di non avere alcun potere, tranne quello di esercitare forza su noi stessi per non aver paura. Eppure io sono venuto qui per chiedere a voi la vita! Aiuto per tener in vita il nostro sapere, il nostro spirito, la conoscenza che cerca faticosamente di diventare Sapienza, per sapere da voi cosa fare e come farlo. Aiuto – e perché non dirlo? – per tenere in vita il nostro corpo, perché sia, almeno un poco, tempio di ciò che vogliamo trasmettere, perché di vita in vita sia nel tempo che trascorre e si rinnova attraverso l’essere in divenire, anello minimo ma essenziale, con innumerevoli altri, a congiungere l’antica luce della prima Resurrezione con l’amore dell’ultima delle creature che vedrà, salendo al Cielo, la fine della storia umana.”

“Hai tutta la mia vicinanza e sento tutta la responsabilità delle tue attese.” Mormora come se lo stesse dicendo a sé stesso il professore.

“Perché sono qui? Sapevo dell’eruzione catastrofica del vostro vulcano, il Vesuvio, nel 1631, delle numerose sommosse e del rischio di pestilenza…” Si chiede con angoscia l’inviato.

“Sei qui perché sai che solo chi affronta ed evita la morte sa come tenersi in vita.”

“È vero: ho pensato anche questo. Ma, ad esempio, quando siete stati vittime dell’eruzione, cosa avete fatto?”

“Napoli non è stata vittima: da Napoli è venuta la soluzione del problema!”

“In che senso?”

“L’eruzione ha investito alcune piccole città ai piedi del Vesuvio e oltre 44.000 profughi sono venuti da quei siti a rifugiarsi a Napoli. Da qui si vedeva la catastrofe, ma in città non si correvano rischi; da qui Micco Spadaro ha riprodotto dal vero sulla tela l’eruzione, terribile, infernale e spettacolare allo stesso tempo. La curia arcivescovile dispose una grande processione alla quale si accodò la maggior parte degli abitanti: furono portati in corteo la statua di San Gennaro e le sue sante reliquie, mentre si chiedeva l’aiuto divino con l’intercessione della Vergine. Accadde che, quando la statua del santo fu posta a difesa della città, rivolgendola simbolicamente verso il vulcano, l’eruzione cessò di essere esplosiva e si fermarono i fenomeni pericolosi, rimanendo solo una fuoriuscita di lava per diciassette giorni. Nel 1633, ultimata la cappella del tesoro di San Gennaro, fu scolpita una dedica con la gratitudine della città per il suo santo protettore.”

“Mi dici che la fede vi ha salvati?”

“La fede. Si, proprio la fede.”

“Devo aver fede a Oxford?”

“Non più di quanta ne hai avuta nel venire qui. Devi essere speranza per gli altri, e diventare esempio per loro, così vi darete forza a vicenda.”

“Giusto. Ma bisogna che impari ancora molto.”

Dopo quest’ultima parte di conversazione il giovane studioso britannico si sente sollevato e rinfrancato, e prova di nuovo la sensazione avvertita quando era nel cenacolo, ossia di essere in un luogo sicuro, fra persone che possono sostenerlo, proteggerlo e dargli forza. La peste, e quell’aegritudo temuta da Sant’Agostino più della morte e che oggi chiamiamo depressione, sono state allontanate dalla sua coscienza: ha prevalso la vita.

Il professore napoletano, dopo aver promesso che continuerà il racconto delle vicende accadute dopo l’uccisione di Masaniello, sollecita il suo ospite a seguirlo per recarsi nella sala biblioteca, dove potranno incontrare tutto il corpo docente dello Studio di Napoli. Andando, incrociano i frati di ritorno dall’officio tenuto in cappella. Rivedendo il priore, l’Inglese ripensa alla teoria dei ragazzi meno bravi nell’apprendere, i quali da grandi diventano maggioranza che segue i malandrini piuttosto che i virtuosi, allora, alza un po’ la voce per richiamare la sua attenzione:

“Padre, ma i fanciulli bravi nello studio non sono tutti volti al bene!”

E il priore:

“Quelli volti al male creano potentati e imprese in grado di soddisfare le loro ambizioni, il loro egoismo, la loro avidità e gli altri desideri disonesti e peccaminosi. Ma non sono molti e il loro agire è compensato da quello dei virtuosi, che creano opere di carità, di giustizia, di sapere, di amore. Il motivo per cui ci sembra che le cose vadano male al mondo è dato proprio da quella maggioranza di figliuoli che non ha forza per agire da sé e, invece di stare col bene, per mille motivi segue le opere del male, ossia del mondo.”

“E il principe di questo mondo è Satana: è lui il padrone…”

“Lo è per questo motivo. Se la maggioranza gli voltasse le spalle, di chi sarebbe principe?”

“Giusto!”

 

54. La discussione sull’attacco di Thomas Hobbes attualizza a Napoli la minaccia inglese all’Università cattolica di Oxford. Salutati i frati, giungono in una sala adibita a biblioteca, dove sono stati portati anche dei banchi dalla vicina certosa, scrittoi e tavoli da studio. Vi trovano già seduti, intorno al tavolo più grande, e ciascuno con libri, cartelle, fogli e calamaio, il decano e tutti i professori dello studio che erano con loro al desinare, e allora si affrettano a occupare i due posti vuoti.

Il decano prende la parola: “Premettendo che ciascuno di noi farà dono al nostro gradito ospite di una copia dei propri studi più recenti e che, visto che viaggia da solo, gli si darà il supporto di un valletto che lo accompagnerà fino all’imbarco, vorrei subito affrontare la questione dei termini in cui si è sostanziato l’attacco di Thomas Hobbes al benemerito Studio di Oxford, cristiano di fedele tradizione apostolica romana per fondazione, vocazione e ispirazione delle sue libere e illuminate menti…”

“Mi dispiace interrompere – interviene il docente di filologia – ma parlando anche a nome dei miei colleghi delle arti del trivio, devo far presente che noi non conosciamo nulla del pensiero di questo gentiluomo anglosassone. Non abbiamo mai avuto notizia delle sue opere e, dunque, vi saremmo grati se aveste la cortesia di istruirci un poco sulle generali del pensiero e degli intenti di questo studioso, così che noi si possa partecipare almeno comprendendo i termini, se non esprimendo il nostro avviso.”

“Giustissima richiesta, chi comincia?” Chiede il decano. Allora, Alberigo Acciaiuoli: “Lascio subito la parola all’unico vero esperto, conoscitore e connazionale di Hobbes, ma dico solo agli amici del trivio che, se è vero che per secoli si è ritenuto poco conveniente che un cristiano si definisse filosofo, perché il modello dei pensatori dell’antichità con questo nome era un modello pagano di ricercatori del sapere privi della luce della rivelazione e inclini a eleggere a fine dell’esistenza la loro attività speculativa, tanto che ogni filosofia trovata in un padre della chiesa o in un altro grande cristiano era ricondotta a teologia o a pastorale, oggi non si teme più di parlare con franchezza di “filosofi” parlando di cristiani, dando per inteso che il cristiano, filosofo come Giovanni l’evangelista o pescatore come Simon Pietro, avrà sempre come priorità la ricerca del Regno dei Cieli. Tuttavia – e concludo – il mio personale avviso su Hobbes e altri pensatori britannici di oggi è che siano più vicini a filosofi empirici antichi che a studiosi cristiani moderni.”

Allora prende la parola l’inviato di Oxford:

“Thomas Hobbes ha un grande seguito perché fonda la sua filosofia su concetti e principi che fa derivare dall’essenza naturale dell’uomo, così che a molti il suo pensiero appare come una conseguenza logica e razionale della realtà di natura.”

“Interessante. E quali sono questi concetti e principi?” Domanda il decano.

“Il diritto di natura, la libertà e le leggi naturali.” Risponde l’inviato.

“Dunque, nulla che abbia a che fare con la creazione e la Legge divina. E con quali significati adopera queste espressioni?” Commenta l’anziano docente.

“Per lui il diritto di natura è la libertà di ogni uomo di agire per preservare la propria vita. La libertà consiste nell’assenza di impedimenti per esercitare tale diritto. E chiama legge di natura un precetto o una regola generale scoperta dalla ragione, che vieta ad un uomo di fare ciò che è lesivo per la sua vita[20].” Spiega l’Oxoniano.

“Capisco l’attrazione: i dieci comandamenti sono doveri, lui parte dai diritti. E a cosa ha diritto l’uomo, secondo natura?” Interviene e domanda il docente di diritto.

“Hobbes sostiene che ogni uomo abbia diritto per natura a ogni cosa.” Dice l’inviato.

“Nell’Eden, Adamo ed Eva avevano un frutto proibito. L’uomo di Hobbes neanche quello: è un semidio cui tutto è dovuto?” Si chiede il filologo.

“No, che abbia diritto non vuol dire lo ottenga. Indica che non vi è in natura un impedimento alla libertà dell’uomo di fare di tutto per preservare e migliorare la propria vita.” Chiarisce l’Inglese.

“Ho capito.” Risponde il filologo.

“Si, ma non è distante dalla concezione dei filosofi naturali della Grecia antica.” Interviene l’Acciaiuoli rivolgendosi a tutto l’uditorio. Poi l’Inglese riprende:

“Sapete qual è per Hobbes la legge fondamentale di natura?”

“No.” Rispondono tutti.

“Che ogni uomo compia ogni sforzo per ottenere e conservare la pace. Da questa, deriva la seconda legge di natura: che l’uomo si accontenti di avere tanta libertà contro gli altri, quanta ne concederebbe agli altri contro sé stesso. Questa seconda legge – spiega lui – è in perfetta armonia col Vangelo, col non fare ad altri ciò che non vorresti facessero a te: il quod tibi fieri non vis, alteri ne feceris, che troviamo in Matteo VII, 12.[21]

“E questo in cosa si discosta dal nostro modo di pensare?” Chiede il decano.

“Apparentemente in nulla.” Fa l’Inglese, ma prosegue: “Invece nel suo pensiero troviamo poi una differenza sostanziale: la reciprocità. Mi spiego meglio: il suo “non fare agli altri quello che non vorresti facessero a te” vale solo nei confronti di coloro che accettano e seguono questa stessa regola; se uno ti fa del male, allora, secondo Hobbes, tu sei autorizzato a restituirglielo, perché se tu rinunci a questo diritto non sei più semplicemente uno che cerca la pace, ma uno che si comporta come preda[22]. Gesù Cristo ci ha insegnato a porgere l’altra guancia e ha sopportato la flagellazione, gli sputi, il dileggio, la crocefissione senza reagire. Comportarsi cristianamente solo con i fratelli cristiani è come amare solo coloro che ci amano, e questo non dà alcun merito perché, come leggiamo nel Vangelo, fanno così anche i Gentili.”

“Sembra pensato apposta per giustificare le guerre di reazione a un attacco.” Osserva il professore napoletano.

“L’ho detto subito che ha una matrice pagana questo pensiero!” Esclama il docente di filologia. Ma poi il decano riconduce la discussione al problema posto dall’ospite:

“Esaurite queste premesse sul pensiero del filosofo, desideriamo sapere quali sono le sue tesi in contrasto con l’ispirazione apostolica romana di Oxford.”

“Le sue censure sono quelle che anglicani, protestanti e puritani rivolgono a noi cattolici, ossia la Transustanziazione, il Purgatorio, il ruolo della Madre di Dio nel piano salvifico e così via, ma il problema consiste nella forza persuasiva delle sue argomentazioni basate sulle Sacre Scritture. Alcune ormai circolano come pamphlet e i nostri nemici parlamentari le hanno fatte proprie.” Spiega l’inviato. Al che, con un sorriso rassicurante, il decano annuncia:

“Ho mandato a chiamare il priore, perché i suoi studi di teologia e il suo avviso sempre profondo e meditato possono aiutarci nell’analizzare e comprendere il giusto e l’erroneo del filosofo. E ora, sentiamo queste argomentazioni.”

“Hobbes – comincia l’Inglese – procede per sillogismi: noi tutti cerchiamo la salvezza dell’anima e, per ottenerla, ci affidiamo alle Sacre Scritture, che ci indicano la necessità della fede, dono di Dio, per salvarsi. È necessario dunque credere e obbedire ai comandamenti per sperare nella vita eterna, ma tutto questo si fonda sul fatto che realmente gli scritti biblici siano la Parola di Dio e, quindi, si pone la questione del perché noi crediamo che le Scritture siano la Parola di Dio. E su questo – secondo Hobbes – dobbiamo concentrare la nostra attenzione, e non farci sviare da quanto è accaduto storicamente: hanno spostato l’attenzione dal perché noi lo crediamo al come lo conosciamo, come se credere e conoscere fossero la stessa cosa, e come se il modo si potesse sostituire al motivo o, se si vuole, alla causa.[23]

“Interessante, vediamo dove vuole arrivare.” Interloquisce il decano, mentre il priore prende posto tra loro.

“Il come lo conosciamo – riprende l’inviato – è affidato all’insegnamento tramandato per secoli dai genitori ai figli e dai pastori ai fedeli, ma perché lo crediamo? secondo i cattolici in quanto lo insegna la Chiesa, secondo i protestanti per intimo convincimento personale, che Hobbes chiama testimonianza dello spirito privato.[24]

“Immagino che entrambe le posizioni siano criticabili per lui, perché quella giusta è la terza, cioè quella anglicana. Mi sbaglio?” Chiede il professore napoletano.

“Non ti sbagli – risponde l’ospite – infatti Hobbes nota che la certezza nel primo caso è affidata all’infallibilità della Chiesa e, nel secondo caso, all’infallibilità individuale, e per entrambi i casi è facile dimostrare che il non errare mai sia insostenibile. Dunque, non crediamo perché siamo venuti a conoscere la Verità come una realtà, così come è accaduto a Mosè, Abramo, Isacco, Giacobbe e poi agli Apostoli che hanno incontrato Cristo, e in generale a tutti coloro che hanno fatto esperienza materiale, attuale e sensoriale della rivelazione, ma perché abbiamo prestato fede a delle persone che ci hanno detto che la Scrittura viene da Dio.”

“Ti lascio proseguire – interviene il priore – ma c’è un errore di fondo in Hobbes. L’infallibilità del Papa, giusta o sbagliata che sia, riguarda le sue decisioni pastorali, e non è il motivo per cui noi cristiani crediamo che la Torah e il Vangelo siano parola di Dio. Che lo siano è scritto nei testi stessi, sono gli autori biblici che lo dichiarano. Dunque, noi cristiani crediamo perché lo Spirito Santo ci ha illuminati e prestiamo fede ai due Apostoli, Matteo e Giovanni, e ai due Discepoli, Marco e Luca, autori dei quattro Vangeli. Se non avessimo il dono, tutt’al più potremmo discutere dell’affidabilità degli evangelisti, ma non di chi semplicemente ci conduce alle Sacre Scritture. Questa argomentazione di Hobbes non è teologica; lui l’ha ripresa a suo modo dalle tesi della scolastica medievale a sostegno dell’importanza della predicazione, dell’insegnamento, del portare la parola divina a chi non sa o non può leggerla.”

“Grazie, priore! – Esclama l’Inglese – davvero illuminante. Non solo non mi ero mai reso conto di quanto lei ha appena detto, e le sue parole definiscono con assoluta chiarezza, ma credo che in Inghilterra Hobbes questa obiezione non l’abbia mai ricevuta da nessuno.”

“Ma prosegui figliolo, istruiscici su questo dotto errante.” Lo esorta il priore.

“Hobbes, riprendendo frasi dall’Epistola ai Romani di San Paolo, conclude che la fede viene dall’udire e l’insegnamento è la causa della fede[25]. E spiega che, se non tutti coloro che ascoltano credono realmente e operano secondo quanto è stato loro insegnato, è perché l’apprendimento è un dono di Dio. Se la fede viene dall’ascolto, allora è di massima importanza ciò che si insegna; quindi, coloro che hanno il compito di suscitare il credo nell’animo delle persone devono essere accreditati di non professare eresie e devono essere sottoposti, come lo sono i nostri ‘pastori legittimi’, al controllo del capo della Chiesa che deve essere anche il capo dello stato.”

“Non mi sfugge un aspetto – interviene il decano – lo Studio è proprio la sede più alta dell’insegnamento e, dunque, se vi insegnano dei cattolici c’è il rischio che suscitino la fede secondo la nostra tradizione, mandando all’aria il piano di sottomettere chiesa, cultura e classe dirigente all’autorità come è avvenuto da voi…”

“Dal tempo della regina Elisabetta.” Completa il membro del Circolo di Oxford, e poi: “Su cosa è necessario per salvarsi, Hobbes svolge delle tesi che apprezziamo e condividiamo, ma poi ne trae la conseguenza che le fondamenta della cultura di “papisti” come noi sono eretiche. Correttamente lui dice che per salvarsi il solo articolo di fede (unum necessarium)[26] è che Gesù è il Messia. In una sintesi efficace di tutti gli spunti salienti del Vangelo di Matteo mette in evidenza come tutta la narrazione abbia lo scopo di comunicare la buona novella che Gesù è il Cristo[27]. Poi sostiene che gli altri due sinottici hanno lo stesso fine principale, e conclude con l’esplicita dichiarazione di San Giovanni Evangelista al termine del quarto Vangelo: ‘Queste cose sono state scritte affinché voi sappiate che Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente’. Tutta la dottrina, secondo Hobbes, può essere ricondotta all’identità messianica o dedotta da questa verità di fede. E fin qui, nulla quaestio. Ma poi, su questa base, esclude una alla volta tutte le pratiche cattoliche pur fondate sul Vangelo, perché sostiene che è sufficiente per salvarsi riconoscere la natura messianica del Figlio di Davide, e tutto il resto allontana dalla fede.”

“Ma su quale base le esclude?” chiede il decano.

“In base al fatto che nella Scrittura si dice che le questioni della fede sono facili e, dunque, questo confermerebbe il precetto unico, e adduce a riprova il fatto che San Paolo è stato un così grande santo, perdonato per la sua persecuzione dei fratelli e i tanti crimini commessi, perché ha creduto nella natura divina messianica di Gesù e, dice Hobbes, forse non ha mai pensato alla Transustanziazione e al Purgatorio[28].” Risponde l’inviato.

“Ma Hobbes ha fatto una sua esegetica?” Domanda il priore.

“No – risponde l’Inglese – ma ho letto sue interpretazioni di brani del Vangelo quanto meno singolari.”

“Un esempio?”

“Si, il brano del giovane ricco. Gesù, saputo che il giovane già osserva i comandamenti e i precetti fin dall’infanzia, gli dice di dare tutto ai poveri e seguirlo, indicandogli una vita totalmente dedicata all’amore di Dio e del prossimo, come quella consacrata dei religiosi. Ebbene, Hobbes dice che significa: appoggiati su di me che sono il re.”

“Una lettura che distorce in chiave teocratica l’esortazione a rinunciare alla ricchezza materiale per amore del prossimo.” Commenta il priore. Allora l’inviato chiarisce ulteriormente i termini del problema:

“Il problema del Circolo di Oxford è questo: fino a quando eravamo bersaglio dei più estremi e prevenuti faziosi anglicani, puritani e delle varie sette protestanti, la nostra condizione e la nostra reputazione potevano essere difese in parlamento come quelle di coloro che professano una religio licita e sono bersagliati da antagonisti; ma da quando abbiamo subito l’attacco di Hobbes, che noi stessi stimiamo e che ha fama di essere un libero pensatore al di sopra degli interessi di fazione, molti tendono a vederci come una minoranza in contrasto con la Chiesa d’Inghilterra, che riconosce il sovrano come suo legittimo capo spirituale e temporale, ed è politicamente rispettata da tutte le sette di estrazione protestante.

Se, pur rimanendo legati al credo eucaristico e al culto mariano, ci fossimo separati dall’autorità del Papa, non saremmo arrivati a questo punto. La nostra sottomissione al capo della Chiesa di Roma, che è anche sovrano con poteri temporali e alleanze con potenze cattoliche in conflitto con noi, ci fa attribuire una potenzialità eversiva dell’ordine costituito. Capite, la mia missione è segreta, perché se in parlamento ne fossero a conoscenza la interpreterebbero come una richiesta politica di aiuto, attraverso il Regno di Napoli, a potenze cattoliche, quali Spagna e Francia”.

“Capiamo.” Risponde per tutti il decano. Poi, dopo una pausa, il priore:

“La Chiesa si è organizzata nei secoli sempre più come una gerarchia di potere, è vero; tuttavia, conserva in seno l’ispirazione apostolica delle origini, consistente nell’intenzione dei suoi membri di essere custodi e testimoni del Vangelo, per la ragione che in essa, per quanti uomini insulsi e traviati possano averla afflitta, è presente lo Spirito Santo. La Chiesa di Roma non è un impero o una dittatura del Papa di cui noi tutti siamo sudditi, perché Gesù ha detto che chi vuol essere primo si faccia ultimo. E dunque tanti “ultimi” possono prendere la parola, sia per chiedere aiuto nel nome del Signore, sia per aiutare chi ha potere temporale a fare la volontà di Dio.”

“Questo dà speranza” Fa l’Inglese.

“Infatti.” Conferma il decano.

“Quando Papa Sisto IV, su richiesta dei sovrani Ferdinando e Isabella di Castiglia, fidandosi della fama di buoni cristiani della coppia di sovrani, consentì l’istituzione dell’Inquisizione Spagnola, commise un errore. Non poteva sapere che dal 1483, quando fu eletto Thomas de Torquemada come grande inquisitore plenipotenziario, nei 22 tribunali dell’impero spagnolo oltre duemila persone sarebbero state condannate alla pena di morte.

Dio ha detto: ‘Nessuno tocchi Caino’, e sappiamo che il Figlio è venuto per convertire e non per giudicare, perché solo il Padre può punire: il primo dovere del cristiano è amare, il secondo è correggere l’errore, sempre perdonando chi è pentito, e abbandonando solo chi voglia appartenere a satana.” Ricorda il priore.

“Correggere l’errore di un Papa infallibile per dogma, dunque?”

“Infallibile in materia di dottrina. In politica è solo un uomo.”

“Un uomo che era stato raggirato.”

 “In un certo senso. L’errore più grande fu affidare al potere politico di uno stato il giudizio di eresia: l’Inquisizione Spagnola divenne un mezzo per sbarazzarsi di potenziali oppositori politici.

Napoli si oppose fermamente, con un’impressionante sollevazione di popolo guidata dal nipote di Ferdinando il Cattolico, ossia Ferrante Sanseverino, che volle recarsi personalmente ad Augusta a conferire con Carlo V[29]. Quella opposizione non fu una ribellione contro il Papa, ma contro una decisione sbagliata, che aprì la strada alla correzione dell’errore.”

“Come viene corretto l’errore?” Domanda l’Inglese.

“Papa Paolo III toglie dalle mani dei sovrani l’Inquisizione, proprio per assumere il controllo degli inquisitori nazionali e coloniali che facevano stragi nel nome della Chiesa e, con la bolla Licet ab initio del 21 luglio 1542, istituisce la Sacra Congregazione della Romana et Universale Inquisizione[30].”

“Come devo agire?” Chiede in modo diretto l’inviato.

“Credo si debba affrontare il problema da più parti. E noi possiamo essere d’aiuto in vari modi.” Dichiara il decano, e subito aggiunge: “Ma abbiamo bisogno dell’aiuto del priore.”

“Il Signore ve ne renderà merito!” Esclama il membro del Circolo di Oxford.

“Intanto – riprende il decano – il priore, con i teologi di San Domenico, scriverà al Papa anche a nome dello Studio di Napoli, che apporrà firme e sigilli alla missiva, comunicando dettagliatamente la situazione di Oxford, specificando quanto sia delicata e con quanta accorta diplomazia si dovrà fornire supporto ai fratelli, facendo giungere, come per caso, da vari paesi decine di religiosi cattolici di alto ingegno interessati ad assistere alle vostre lezioni. Noi ci occuperemo di dare il massimo risalto a tutte le opere dei vostri ingegni, a cominciare da Boyle, Willis e il mai dimenticato Harvey. Finita la peste, con l’aiuto delle nostre stamperie di Firenze e Venezia, moltiplicheremo le stampe delle vostre opere e le diffonderemo negli studi italiani, facendo in modo che siano celebrati in giro per l’Europa come eccellenze che danno lustro al Regno d’Inghilterra. Così, si spera, possiate volgere i sovrani e i seguaci di Cromwell dalla vostra parte.”

“Sarebbe un sogno.” Sorride di speranza l’inviato.

“Le cose dette vanno tutte bene – dice il priore – ma dobbiamo fare di più. Sono da tempo in contatto epistolare con anglicani e protestanti che soffrono la continua crescita di non credenti e di atei tra nobili e borghesi, così come di usi pagani anche nel popolo; non vedono l’ora di una conferenza comune nel nome di Nostro Signore per definire delle linee morali da suggerire ai governanti per scuole, ospedali, tribunali e carceri. Un’alleanza morale, anche se dura poco, fra diverse confessioni come progresso di civiltà cristiana potrebbe dare scacco ai nemici di Oxford. Mi manca però un tema definito che possa far presa, così da attrarre molti intelletti”.

“Io ce l’ho!” Esclama L’Acciaiuoli.

“Davvero?” Chiedono in molti.

“Il punto nodale – comincia il Fiorentino alzandosi e disponendosi a un discorso – è la coscienza morale del peccato nella realtà sociale.”

“Cosa vuoi dire?” Interroga il professore napoletano.

Se il peccato non esiste, come nelle società dei barbari, tutti coloro che possono esercitare la violenza e il sopruso a proprio vantaggio diventano sempre più ricchi e potenti, rubando l’eredità alle vedove e agli orfani, facendo lavorare tanti come schiavi per aumentare le proprie ricchezze. Se il peccato non esiste, intendo non esiste come oggettività che lega il singolo a tutti gli uomini attraverso il giudizio di Dio presente in ogni coscienza, l’unico limite per l’iniquo e il prepotente è dato dal pericolo di essere vittima di chi ha forza maggiore della sua: a volte lo stato, a volte una milizia mercenaria, a volte altri barbari stranieri, a volte briganti, altre i propri sodali che per avidità gli si volgono contro. Se il peccato non esiste nello spirito di un popolo, ciascuno, ad ogni grado di ricchezza e forza, si impegnerà per diventare sempre più abile e scaltro nel compiere il male sfuggendo alla vendetta o alla punizione. Corollario di questo modo è lo stesso massacro dei vinti che facevano i barbari: uccidendo tutti erano certi che nessuno potesse tramare futura vendetta.”

“E noi diremo che il peccato esiste, e averne coscienza rende migliore un popolo.” Dice l’inviato.

“Si, la tua è una sintesi che rende evidente come la giustizia nell’uomo abbia bisogno del riferimento a Dio, al di sopra delle parti, presso il quale si rappresentano e si significano il bene e il male: il peccato è il male fatto a Dio. È così anche per il bene: sappiamo dal Vangelo che anche il bene fatto al più piccolo dei fratelli non resterà senza ricompensa.” Commenta il Napoletano.

“Un consesso umano, un popolo, una nazione – riprende il Fiorentino – che abbia solo i codici delle leggi dello stato come limite, e non abbia il peccato, non può farsi illusioni: se non è barbara finirà per imbarbarirsi. I limiti imposti dai codici, in pratica, dipendono dal grado di certezza della pena, e nelle società corrotte è tutta una corsa a trovare modi ed escogitare trucchi per evitare le sanzioni e apparire virtuosi senza esserlo; si dice: fatta la legge, trovato l’inganno. Ma, il male che si compie, si accumula e poi si rivela come evidenza sociale.”

“Infatti – interviene il professore partenopeo – una società di iniqui non funzionerà più bene, perché esalta ciò che non vale, rendendo valore la rappresentazione del potere e svilendo la sostanza del lavoro onesto, del prodotto dell’impegno e dell’ingegno. Ma è quello che sta accadendo: rispettiamo i potenti per i grandi palazzi che hanno fatto costruire con bottini di guerra e profitti illeciti, ma non conosciamo neppure i nomi di chi vale più di loro, ossia gli architetti, i muratori, gli scultori e i pittori che hanno edificato e realizzato le opere, ossia la forma esibita del potere degli iniqui.”

“È vero. Questo vale anche per lo Studio e per la Chiesa: in una realtà corrotta arrivano alle cattedre e alle cattedrali quelli che praticano l’ingiustizia a proprio vantaggio, tenendo fuori i geni e i santi, col risultato di impoverire e dissacrare l’uno e l’altra.” Integra l’Acciaiuoli.

“A questo proposito devo dirvi – interviene l’Inglese – che nel nostro parlamento hanno chiesto di abolire gli Studi di Oxford e Cambridge. Qualcuno ha proposto di distruggerli. Se non l’hanno ancora fatto è perché siamo riusciti a prendere tempo per dibattere a fondo la questione, sperando nel dibattito di riuscire a dimostrare che non siamo un problema per la morale del popolo e gli interessi della nazione.”

 

 

 

 

[continua]

 

 

 

 

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giuseppe Perrella

BM&L-29 gennaio 2021

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La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.

 

 

 

 



[1] Ascanio Filomarino, Lettere, in Francesco Palermo (a cura di), Narrazioni e documenti sulla storia del regno di Napoli dall’anno 1522 al 1667, pp. 379-393, Giovan Pietro Vieusseux, Firenze 1846.

[2] Giuseppe Campolieti, Masaniello. Trionfo e caduta del celebre capopopolo nello sfondo della tumultuosa Napoli del Seicento, p. 165, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1989.

[3] Alcune fonti storiche hanno identificato la sostanza con la reserpina che non è uno psicosomimetico, cioè una di quelle molecole che a una prima assunzione in una dose superiore alla dose minima efficace può scatenare i sintomi di una psicosi acuta, quali deliri e allucinazioni, ma un alcaloide della rauwolfia serpentina (v. dopo).

[4] Questo processo, secondo analisi classiche di psicologia sociale, porterebbe alla reificazione della persona, ossia a rappresentarla inconsapevolmente come una “cosa”, non più un essere umano, rendendola “uccidibile”.

[5] Ascanio Filomarino, Lettera a Papa Innocenzo X del 12 luglio 1647 – copia d’archivio.

[6] Ascanio Filomarino, idem.

[7] Cfr. Giuseppe Campolieti, op. cit. p. 194; Ottorino Gurgo, Lazzari – Una storia napoletana, p. 99, Guida Editori, Napoli 2005.

[8] Cfr. Vittorio Gleijeses, La Storia di Napoli, p. 460, vol. II, SEN, Napoli 1974.

[9] Cfr. Giuseppe Campolieti, Masaniello. Trionfo e caduta del celebre capopopolo nello sfondo della tumultuosa Napoli del Seicento, pp. 42-44, Istituto Geografico De Agostini di Novara, Novara 1989.

[10] Si tratta di un titolo e un incarico di governo istituito inizialmente dai sovrani di Spagna per le colonie americane. Le capitanie furono adottate anche dai Portoghesi come sistema di amministrazione dei territori del Brasile.

[11] Tutto quanto è riportato come compenso dei traditori è tratto da documenti custoditi presso l’Archivio General de Simancas, un archivio di Stato della Spagna (uno dei 5 archivi centrali) fondato nel 1540, in cui si custodiscono i documenti della Corona di Castiglia dalla fondazione al 1844. Si veda anche: Aurelio Musi, La rivolta di Masaniello nella scena politica barocca, p. 119, Guida Editori, Napoli 1989.

[12] Giuseppe Campolieti, op. cit., p. 194; Ottorino Gurgo, Lazzari. Una storia napoletana, p. 99, Guida Editori, Napoli 2005.

[13] Ascanio Filomarino, Lettera del 16 luglio 1647, alla pagina 387 del volume Lettere, in Francesco Palermo (a cura di), Narrazioni e documenti sulla storia del regno di Napoli dall’anno 1522 al 1667, Giovan Pietro Vieusseux, Firenze 1846. Per parte mia, se fossi uno storico indagherei sul documento originale, per cercare di verificare se quest’ultima lettera sia autografa, ossia realmente scritta da Ascanio Filomarino.

[14] Ottorino Gurgo, op. cit., p. 102. Su questa tradizionale festa mariana a Napoli si può leggere in Vittorio Gleijeses, Feste, Farina e Forca. (III edizione) SEN, Napoli 1977.

[15] Erroneamente in Gleijeses si riporta che fu abbandonato sulla spiaggia (Cfr. Vittorio Gleijeses, La Storia di Napoli – dalle origini ai nostri giorni, p. 603, III edizione, SEN, Napoli 1978.). Inoltre, Gleijeses chiama “Carlo Ardizzone” Michelangelo Ardizzone (Si veda in Gaspare De Caro, Dizionario Biografico degli Italiani vol. 4 – alla voce “Michelangelo Ardizzone” – Treccani, 1962. In questa voce si riporta anche l’aneddoto secondo cui l’Ardizzone abbia già premeditato di uccidere l’amico in una gita in barca a Posillipo, ma poi vi abbia dovuto rinunciare. Non ho trovato conferma di questo racconto che pare inverosimile, in quanto difficile da collocare nelle concitate ore dense di eventi documentati dei tre giorni che precedono l’assassinio).

[16] La preghiera incessante nel corso di tutto il mese di luglio al beato Gaetano, oltre che alla Vergine Maria, fu ritenuta all’origine di un improvviso violento nubifragio con una pioggia torrenziale che investì il 7 di agosto 1656 anche tutti gli ospedali da campo allestiti in città (cfr. Gleijeses, op. cit., p. 606, 1978). Dopo quella pioggia i contagi crollarono bruscamente e in breve andarono estinguendosi. Il popolo gridò al miracolo, e tale evento contribuì alla canonizzazione di San Gaetano da Thiene, la cui solennità è fissata proprio il 7 di agosto. I fedeli che si erano rivolti alla Madonna ringraziarono nella chiesa di Santa Maria di Costantinopoli, che era stata edificata per venerare un’antica immagine della Vergine detta “Madonna di Costantinopoli”, ritrovata nel 1529 da un’anziana devota, e dinanzi alla quale il popolo aveva pregato ottenendo la fine della pestilenza di quell’anno e di altre negli anni successivi, oltre che di altre calamità. La città fu ufficialmente dichiarata del tutto libera dalla peste solo l’8 dicembre del 1656 alla festa dell’Immacolata.

[17] Si veda Paulus Fürst, Il medico della peste, acquaforte del 1656 (in J. Columbina).

[18] La Pasteurella pestis fu scoperta nel 1894 da Alexandre Yersin (perciò detta Yersinia), ex-allievo di Pasteur.

[19] Era già nota nel Seicento l’abitudine degli Inglesi di bere tè nel corso della giornata, consuetudine che si vuole sia nata a bordo delle navi che trasportavano carichi già essiccati di Camellia sinensis dalle Indie Orientali. Uso da non confondersi con il più recente rito aristocratico dell’afternoon tea, che richiedeva uno speciale abbigliamento e costituì un segno distintivo della corte della regina Vittoria, dove fu introdotto nel 1840 da Anna Russel, duchessa di Bedford e amica personale della sovrana.

[20] Thomas Hobbes, Leviatano (2 voll.) I vol., p. 124, Fabbri Editori, Milano 1996.

[21] Cfr. Thomas Hobbes, op. cit., p. 125.

[22] Cfr. Thomas Hobbes, op. cit., idem.

[23] Cfr. Thomas Hobbes, Leviatano (2 voll.), II vol., op. cit., p. 581.

[24] Cfr. Thomas Hobbes, Leviatano (2 voll.), II vol., op. cit., idem.

[25] San Paolo, Lettera ai Romani, X, 17 (la fede viene dall’udire); cfr. Thomas Hobbes, Leviatano (2 voll.), II vol., op. cit., p. 582.

[26] Thomas Hobbes, Leviatano (2 voll.), II vol., op. cit., p. 583.

[27] Thomas Hobbes, op. cit., p. 584.

[28] Thomas Hobbes, op. cit., p. 585.

[29] In precedenza ho ricordato che per questa missione volle con sé Bernardo Tasso, padre del piccolo Torquato che aveva solo tre anni. Cfr. Lanfranco Caretti (a cura di) Torquato Tasso, Gerusalemme Liberata, in Cronologia pp. XXXVII-XXXVIII, “I Meridiani”, Mondadori, Milano 1976. Il palazzo di Ferrante Sanseverino a Napoli dal 1584, pur conservando la sua facciata, è convertito nella chiesa del Gesù Nuovo, per questa ragione architettonicamente unica come tempio cristiano.

[30] Così si è chiamata fino al 1908, quando il Papa San Pio X la denominò Sacra Congregazione del Sant’Uffizio.